Repetita iuvant? L'altro ieri ho ricevuto l'ennesima proposta di
esporre a pagamento le mie opere in uno dei tanti ripostigli da
rigattiere spacciati per gallerie d'arte sparsi per l'Italia, con
l'aggravante che il proponente, oltre ad essere recidivo, sembra
soffrire di amnesia funzionale dato che non menziona affatto le mie
precedenti e ben cirostanziate repliche.
"Come ebbi già modo di spiegarle con dovizia di dettagli in una email di risposta ad una sua analoga richiesta di partecipazione
pervenutami nel 2014, non partecipo più da tempo a collettive allestite
senza criteri tematici, ispirate in massima parte dall'unico scopo di
drenare i fondi di sedicenti artisti posseduti dalla sindrome
dell'"esibizionismo a tutti i costi" (non è raro che alcuni di loro
finiscano poi con l'esibire la propria "fame creativa" alla mensa della
Caritas). Cordiali saluti
Gentilissimo Alessandro, grazie per la sua risposta chiara ed
eloquente, a mio avviso sterile ed inutilmente ricca, per utilizzare una
sua espressione, "di dovizia di particolari". Il suo parere in
merito all'operato altrui e quindi anche al nostro, lo reputo nullo
quanto la considerazione che ha dimostrato per chi opera in questo
settore. Lei non conosce il nostro modo di lavorare ragion per cui
non le concedo giudizi di così basso spessore nei nostri confronti. Le
consiglio di tenerli per lei. L'unico posseduto da "sindrome di esibizionismo" credo sia lei. Buona giornata. ------------------------------------------------------------------------ Gentilissimo
La dovizia di particolari era riferita alla mail precedente che le
avevo inoltrato nel 2014 e che illustrava con chiarezza la mia
indisponibilità a prendere parte a collettive a pagamento.
Per
meglio comprendere le ragioni che stanno dietro al tono della mia email,
le lascio immaginare la spropositata quantità di proposte analoghe che
continuo a ricevere da "galleristi" e "curatori" (italiani e non) che da
17 anni a questa parte mi inviano lettere preconfezionate dove elogiano
le mie opere senza averle effettivamente viste o tener conto del mio
stile e della mia ricerca estetica (nel gergo corrente di internet
questo modus operandi si potrebbe definire col termine di "phishing").
Per farle solo un esempio, a casa mia una volta si sono presentati
degli "amici artisti" che vantavano collegamenti con un critico d'arte
che mi avrebbe permesso di esporre e vendere in luoghi prestigiosi (il
critico in questione si rivelò essere un meschino millantatore finito
in seguito agli onori delle cronache televisive per aver raggirato e
alleggerito di migliaia di euro vari malcapitati artistoidi). Inutile
dire come già allora avessi subodorato la natura sospetta di tale
interessamento da parte di persone che affermavano di agire solo per
"amore dell'arte". A quel critico, che si affannò a contattarmi
telefonicamente per offrirmi di essere ospite della sua blasonata
trasmissione alla modica cifra di 5000€, risposi con molta franchezza
che avevo già una telecamera con la quale filmare e promuovere "pro domo
mea" i miei dipinti. Non pensi dunque che le abbia scritto solo per
acrimonia o per il gusto autoreferenziale di irridere l'attività del suo
centro culturale.
Carissimo, non ci conosciamo di persona ma
siamo entrambi adulti e navigati a sufficienza per sapere come in questo
"settore" (se tale si possa ancora chiamare) ormai da tempo esiste una
zona franca dove una consorteria di affittacamere cerca di convincere
che lo status di artista debba essere certificato attraverso
l'esborso di quote di partecipazione, necessarie per essere ammessi a rassegne e
concorsi "democraticamente" privi di alcun criterio selettivo al di
fuori di quello "censocratico".
Se si è sentito chiamato in causa la prego di credere che non era mia intenzione
"denigrare" direttamente il suo operato, ma ribadire la mia meditata
contrarietà ad un sistema che persiste nel voler illudere quei tanti
"artisti" ansiosi di sentirsi "arrivati" (una piaga che affligge anche e
soprattutto il campo dell'editoria e dello spettacolo in genere) e che
pertanto getta un'ombra anche su chi (forse) agisce correttamente.
Ad ogni buon conto, su un piano generale resto dell'avviso che sia
"immorale" e "umiliante" voler inculcare l'idea che al giorno d'oggi sia
possibile "conquistarsi " uno spazio (per quanto esiguo ed illusorio)
di visibilità solo mediante oboli, pedaggi e conoscenze altolocate, a
prescindere dalla qualità o dalla più o meno conclamata meritorietà del
proprio lavoro.
Il fatto che lei non condivida il mio punto di
vista, non rende nullo o di basso spessore il mio "parere in merito" nè
la mia coerente avversione a questa "visione mercenaria" della società e
dell'arte in genere.
Ricambio cordialmente i suoi auguri (con la
certezza che quegli "artisti" di cui le parlavo non fossero davvero
animati da "fame creativa" ma da sete di "fama dissociativa").
Nonostante sia stato interrotto nel bel mezzo di una "chiamata
intermondana" con un vecchio amico "chef pluristellato", il Dottor
Malorda cerca di venire incontro alle richieste di una cliente reduce da
un pruriginoso equivoco che le è appena costato il posto di lavoro.
Scritto, diretto, montato, interpretato e prodotto da Alessandro Fantini
Musiche di Alessandro Fantini
Citazioni dal "Paradiso Perduto" di John Milton e la "Divina Commedia"
di Dante.
Alessandro Fantini è il Dottor Famedio Malorda, il sulfureo esteta dagli
oscuri legami di potere a metà tra Lord Brummel e un Ludovico II in
acido, protagonista del web-serial in cui tutti i tentativi di scampare
al disordine di un sistema senza regole e certezze sono destinati a
scontrarsi con la salvifica quanto spietata legislazione del caos.
Questa sera alle 22:40 "EDOnism"
verrà proiettato nella sezione concorso della prima edizione del "Selva
Nera" fantastic film festival di Selvazzano Dentro, Padova, prima
rassegna internazionale del cinema fantastico del Veneto. Un sentito
ringraziamento agli audaci e lungimiranti organizzatori Massimo Bezzati
e Stefano Bovi, allo staff dell'Arena Games che ospita il festival e a
tutti gli "edonisti" che stasera avranno l'occasione di rivivere i
fremiti tellurici della grande mente nascosta sotto la coltre di cemento
e fibra ottica di Honshu. Grazie anche alla redazione di CinemaItaliano.info per aver dato risalto all'evento.
Quattro anni dopo essere emigrato a Tokyo insieme alla moglie Sophie,
l'esistenza del manager James Hallway è ormai ridotta ad una sequela di
sbornie e fallimenti. Alla perdita del lavoro farà seguito di lì a poco
quella di Sophie, decisa a rifarsi una vita lontano dalla spirale di
autolesionismo che sta risucchiando James. Ma quando dietro il tessuto
della realtà cominceranno a balenare visioni che nulla hanno a che fare
con le crisi etiliche, ed un coma lo trascinerà in un oblio temporaneo,
la verità di una seconda esistenza adombrata dal mito nipponico del
Jishin Namazu, il Pesce Gatto che scatena i terremoti, comincerà
lentamente a prendere il sopravvento sulla sua quotidianità. Una verità
che il suo sisma interiore farà presto condividere a milioni di
cittadini.
Ambizioso fanta-noir dalle suggestioni “bladerunneriane” girato nella
capitale nipponica, nonché secondo capitolo della trilogia de “Le Città della Mente Nascosta” preceduto da “Nepente” ambientato a Roma e seguito da “New York, a venture” filmato a Manhattan (proiettato al “Dobbs Ferry film festival” di New York lo scorso febbraio), “EDOnism” nasce da un’idea di Alessandro Fantini,
regista, pittore, scrittore e compositore originario di Atessa, che
all’indomani del terremoto dell’Aquila decide di trasporre il motivo del
sisma, inteso come tumulto emotivo e relazione misterica tra macrocosmo
terrestre e microcosmo umano, in una storia per il grande schermo
ambientata in Giappone, terra dove tecnologia, leggende e misteri
tellurici offrono lo scenario ideale per imbastire una vicenda sospesa
tra realtà e allegoria metafisica. Perché, sebbene l’ispirazione di
fondo derivi dall’urgenza di elaborare in chiave artistica lo sgomento
provato di fronte alle catastrofi naturali che hanno martoriato
l’Abruzzo e il centro Italia, il tema del sisma nel corso del film
assume contorni sociologici e proporzioni cosmiche, fino a divenire
archetipo metaforico di quell’enigma atavico che lega la specie umana
alla terra e all’universo.
Le riprese del film dirette da Alessandro Fantini con la collaborazione del coproduttore Lorenzo Fantini,
il line producer Miles Elliott e Lucy King, si sono svolte a Tokyo
nell’arco di due settimane nelle location dei quartieri centrali di
Tokyo quali Shibuya, Minato, Roppongi, nei pressi del Santuario Meiji
nel parco Yoyogi, e infine sull’isola di Odaiba dominata da una replica
della Statua della Libertà e dall’avveniristica sede della Fuji Film
progettata da Kenzo Tange che hanno fornito l’imponente scenografia alla
sequenza del cliffhanger finale.
Per “EDOnism”, una sorta di colossal “low budget” ispirato tra
gli altri da anime giapponesi come “Akira” e “Ghost in the shell”, e al
quale ha preso parte un cast di attori e comparse provenienti da
Giappone, USA, Inghilterra, Australia, Svezia e Svizzera, Fantini ha
anche creato tre locandine dipinte e disegnate a mano, realizzato lo
storyboard, una sequenza animata, composto la colonna sonora originale e
interpretato il ruolo di un agente infiltrato.
In un’epoca di consumo compulsivo di frammenti di video e
testi, forse quella del romanzo resta la forma espressiva, insieme ai serial
tv, in grado di convincere una persona ad immergersi per più ore di fila in un
flusso spaziotemporale di pura fantasia, invitandola a contribuire
all‘evocazione di un mondo narrativo ed emotivo che non svilisca ma esalti la
sua immaginazione e la sua sensibilità. Trovo che la sua articolata irrealtà
sia un ottimo antidoto alla caotica pseudo-realtà della rete.
A cosa allude il titolo “Balia Bufera”?
Ancor prima di cominciare a scrivere avevo in mente un
paio di titoli che alludevano alla neve, al tema della prima infanzia e alle
tormente. Dopo aver scritto il primo capitolo e aver definito con esattezza
l’intreccio, mi resi conto che la personificazione della Bufera assimilata ad
una balia che nutre e protegge una nuova vita esplicava in due parole, in senso
tanto metaforico quanto letterale, i concetti su cui ruotava l’intera vicenda.
Chi sono i protagonisti del romanzo?
La storia viene narrata in prima persona da Patrizio, ventenne
insicuro cresciuto dagli zii materni dall’età di tre anni, quando la madre
decise di rifarsi una famiglia all’estero, traumatizzata dalla fuga del padre
avvenuta pochi mesi prima della sua nascita. Patrizio non ha mai creduto fino
in fondo alla versione dello zio Leonida, a detta del quale il padre si era
sottratto alle sue responsabilità di genitore, mentre la madre s’era già
invaghita di un altro quand’era incinta. Privo di punti di riferimento e di
veri amici, una volta diplomato Patrizio s’illude di poter cambiare vita
iscrivendosi ad un corso di ingegneria informatica. Ma l’impossibilità di
pagarsi gli studi lo spinge quasi per caso ad unirsi a Tonio e Fabiano, due
giovani ladruncoli per i cui furti si presterà a fare da palo nella convinzione
di racimolare i fondi necessari a finanziare il corso. Il brivido della vita
criminale lo porterà tuttavia a perdere il contatto con la realtà. Così
Patrizio prenderà coscienza della sua alienazione solo al momento di finire in
carcere e in seguito in una casa famiglia isolata su un altipiano. Un luogo
reso ancor più misterioso dalla vicinanza a Monte Crura, un borgo all’apparenza
disabitato dove incontrerà una ragazza a sua volta confinata in una prigione
fisica e mentale.
Si tratta di un thriller, un fantasy, o di una favola per adulti?
Non inizio mai a scrivere cercando di restare dentro il
recinto di un genere o pensando all’età ideale dei lettori. Di solito pianifico
un romanzo solo quando ho raccolto una serie di immagini e di idee dalla cui
associazione sia possibile ricavare un’atmosfera e una tensione tali da tenermi
incollato alla tastiera alla stessa maniera in cui sono convinto il lettore
possa restare catturato dal libro finito.
Chi sono gli autori e i luoghi che hanno influenzato il romanzo?
Oltre ai ricordi d’infanzia dell’altipiano innevato di
Quarto Santa Chiara in Abruzzo, le prime immagini che mi hanno spronato a
scrivere “Balia Bufera” sono state le illustrazioni dell’olandese Rien Poortvliet,
l’autore della celebre serie di libri sugli Gnomi. Ho sempre pensato che quelle
visioni potessero esprimere una qualità drammatica e fatidica se calati in un contesto
realistico e familiare come quello dell’inverno dell’appennino abruzzese, e
ancor di più se sovrapposti alle suggestioni dei racconti di un autore gotico come
Arthur Machen, il cui racconto “il popolo Bianco” ha rappresentato un
importante fonte d’ispirazione per il romanzo.
La storia di Balia Bufera è limitata alla forma letteraria?
La storia di Patrizio, della casa famiglia di Santa
Pelva, di Monte Crura e dei suoi enigmatici abitanti è l’estuario finale di un
ampio numero di affluenti visivi e letterari, quindi non è affatto escluso che
possa estendersi o proseguire in altri codici artistici, primo tra tutti quello
cinematografico. In simultanea alla scrittura del romanzo ho infatti realizzato
una sceneggiatura ideata in funzione delle locations di Pescostanzo e
dell’altipiano di Quarto Santa Chiara, un metodo che mi ha permesso sia di
consolidare il realismo del romanzo che di porre le basi per una seconda vita
dell’opera. Che è poi uno dei significati nascosti nel titolo e nella trama del
romanzo. Perché ad ognuno spetta una seconda opportunità dopo esser stati in
balìa della bufera.
BALIA BUFERA Il Gelo è più dolce della vita
Disponibile in formato paperback ed ebook sulla Vetrina Autore di Lulu, Amazon e Smashwords:
Fedele ai dogmi del “meticciato”
linguistico applicati nel rodatissimo e altrettanto logoro "Lost"
(survival-tv movie di matrice seriale che deve gran parte del proprio successo
all’astuto abbattimento dei confini tra cinema, docu-fiction e reality),questo “Cloverfield”, ennesima
"creatura" cinematografica del produttore J.J.Abrams diretta da Matt
Reeves, mira tuttavia a compiere il percorso inverso attingendo stavolta dal
lessico di quel vernacolo mediatico che negli ultimi quindici anni ha metabolizzato il
codice espressivo del reportage televisivo nella "liofilizzazione"
amatoriale dei video girati da camcorder e telefonini "sversati"
sulla rete, per trasferirne il prodotto finale sul grande
schermo ingigantito ed esasperato dai “mirabilia” degli effetti speciali. Non
solo negli interminabili ed angosciosi piani sequenza peristaltici della
televisione post "11 settembre" va ricercato l'elemento di maggior
seduzione del progetto, quanto piuttosto nell'astuzia citazionistica, già ricodificata
dal “bullet time” di “Matrix” e dilapidata nella penosa conversione
cinematografica dello sparatutto in prima persona di “Doom”, di quelle nuove
modalità di fruizione interattiva di cui la dimensione videoludica
deflagrata con la pandemia delle consoles ha testimoniato l'ineludibile
fascinazione. Ecco quindi che i riferimenti apparenti allo stentato “Blair
Witch Project” di Myrick e Sanchez appaiono pretestuosi e surrettizi nella
misura in cui la parentela putativa di Cloverfield si limita al recupero
dell'espediente narrativo del casuale recupero dei videotapes degli scomparsi
(deformazione stilistica sopravvissuta fino ai nostri giorni con la serie “REC”
e il più recente “VHS”), e sulla ripresa su larga scala del viral maketing
inoculato via web che all'epoca ne aveva amplificato immeritatamente le
proprietà rivoluzionarie nell'assegnazione del principio di realtà a materiali
grezzamente fittizi (strategia di depistaggio testata sin dai tempi di “The
Texas Chainsaw Massacre” del 1974, opera low-budget spacciata per ricostruzione
documentaria di efferati delitti realmente accaduti, sebbene in verità
liberamente ispirata alle gesta necrofiliche di Ed Gein).
Più
stimolante e provocatorio sarebbe invece l'accostamento con gli esiti
radicalmente opposti del "perpetuo maremoto" ottenuto dalla tecnica
della camera in spalla portata al suo acme ne "Le Onde del Destino"
di Lars Von Trier.
Poco
o nulla c'importa del mastodontico umanoide rettiliforme e anfibio che, senza
alcun evidente motivo, scatena la sua furia da elefante impazzito tra i
pinnacoli di vetro e cemento di una Manhattan notturna fotografata come la
città morta di un incubo al neon. Né tanto meno c'interessa parteggiare o
partecipare del terrore simulato con approssimazione da situation comedy che
muove l'erratica fuga dei ragazzi “demi-monde” che, fin dal risibile
pseudo-reality dei venti minuti introduttivi, sfilano davanti all'operatore
professionalmente incompetente senza conferire alcun guizzo di personalità ad
un'irritante bidimensionalità che li renderà simpatici solo al momento di
essere spazzati via dal cataclisma liberatorio che investe la città. Quel che
decuplica e confonde le reazioni dello spettatore, continuamente oblique tra
nausea, vomito, noia, tensione, perplessità, apprensione, curiosità infantile,
è piuttosto la maniacale opera di celebrazione del pretesto visivo che sposta
sistematicamente il fuoco della persuasione dal campo della verosimiglianza dei
personaggi e della trama, a quella della grammatica estetica spinta a vertici
mai raggiunti fino ad allora dal medium audiovisivo.
Basteranno
difatti la defezione assoluta del commento musicale a favore di una raggelante
sinfonia di urla, sibili e suoni ambientali che contribuisce all'immersività
soggettivizzante della visione (proprio come accade in videogiochi quali
"Silent Hill 2", "Doom 3" e soprattutto “Amnesia: The Dark
Descent”), spiazzando il cinefilo abituato ad accettare l'astrazione di quel
coefficiente espressivo di carattere extradiegetico che per convenzione
conferirebbe all'opera la sua rassicurante omogeneità artistica; la soluzione
tanto ingenua quanto riuscita di ricorrere ad un “flash back” intenzionalmente
involontario presentando l'intero filmato come il risultato di un maldestro
montaggio in camera compiuto sovrascrivendo per errore un nastro sul quale la
coppia di amanti aveva filmato una giornata di melense idillio amoroso (nei cui
fotogrammi superstiti si annidano dei “clues", indizi criptati che
alludono alle origini della creatura come in un gioco d'avventura); la
destrezza del reparto addetto al CGI che fa dell'audace smania di fotorealismo
la struttura portante dell'intero progetto, misurandosi con i ripetuti fuori
fuoco del settaggio automatico della telecamera modello consumer ad alta
definizione che imprime un drammatico tono da reportage di guerra alle prime
esplosioni che squarciano la “skyline” di Manhattan e al lancio della testa
della Statua della Libertà rotolante tra le macchine parcheggiate in strada
(citazione stucchevole ma visivamente efficace dalla locandina del
carpenteriano “1997: Fuga da New York”).
Basteranno
tutti questi minuziosi congegni stilistici dissimulati (e dissimulanti) sparsi
lungo i settanta minuti del lungometraggio, a rendere trascurabile l'ennesimo
trafugamento di quegli stilemi archetipizzati dalle saghe di “Alien”,
“Predator”, dei disaster movies come “Trappola di cristallo”, “Deep Impact”,
“The Day After Tomorrow” e da quella imprescindibile di “Godzilla” della quale
si propone di essere il contraltare mitologico in chiave americana.
Sebbene
non si tratti dello spazio siderale in cui fluttua la Nostromo di Ripley, ma
della più “iconografizzata” metropoli del pianeta, anche in questo caso nessuno
potrà “sentirvi urlare”. Specie se per pochi istanti condividerete la visita alle
fauci del ciclopico intruso prima che quest'ultimo sputi videocamera ed
operatore in un impulso di geniale deiezione mediatica. Forse la più efficace
allegoria di un'epoca che ingoia e vomita le immagini ancor prima di digerirle,
trattenendo solo quel tanto necessario ad alimentare il diafano terrore che per
loro natura i mass media continueranno a inoculare nell'immaginario collettivo.