Saturday, December 22, 2018

Will the night ever fall down?


AFAN Alessandro Fantini - Will the night ever fall down? olio su tela, 25x35 cm. (2018)


Friday, November 30, 2018

Gli ultimi guaiti del "Chien Andalou"


Gli ultimi guaiti del “Chien Andalou” 
 di Alessandro Fantini

 

“L’altra notte ho sognato un’infinità di formiche che mi salivano su per le mani!”

“Dio mio, io ho sognato d’aver tagliato l’occhio di qualcuno!” 

Luis Bunuel, Dei miei Sospiri Estremi 1980 

 

 

“(…) Pensiamo che il pubblico che ha applaudito “Un Chien Andalou” è un pubblico abbruttito dalle riviste e dalle “divulgazioni” d’avanguardia, che applaude per snobismo tutto ciò che gli sembra nuovo e bizzarro. Non ha compreso il contenuto morale del film, che è indirizzato direttamente contro quel pubblico con una violenza e una crudeltà totali”

Anno 1929. Numero 39 della rivista barcellonese “Mirador”. Sulle sue pagine il giovane Dalì confutava con forbita acribia l’entusiastico responso riscosso dal film al quale aveva lavorato per circa una settimana insieme a Bunuel nella molteplice veste di sceneggiatore, comparsa e curatore degli effetti speciali. L’attore protagonista Pierre Batcheff, dedito a sniffare etere durante il corso delle riprese finanziate con le elargizioni della madre del regista, moriva suicida a pochi giorni dall’ultimazione dell’opera. La sua scomparsa racchiude in sé i caratteri propri della necrotizzata fortuna di questo metraggio di appena 17 minuti, film così oscuramente seminale quanto dimidiato nella difficoltà di sceverarne le aree di paternità artistica, tale da sancire l’acme e la fine del sodalizio tra il regista ed il pittore iniziato all’epoca degli studi nella Residencia di Madrid. “L’age d’or” del 1930, ancora una volta generato da un’idea comune, verrà infatti portato a termine senza una fattiva collaborazione dell’artista catalano che troverà modo negli anni della sua fama di “Avida Dollars” di rinfacciare a Bunuel di aver stravolto i suoi intenti originari. Né sarà dato di rintracciare dei veri e propri fenomeni di emulazione o di raccolta del lascito “distruttivo”, anti-cinematografico del film nel bacino della cinematografia mondiale delle decadi a venire.

Ancora oggi insofferente a qualsiasi tentativo di equanime inquadramento entro il casellario dei “generi”, partorito per esplicita confessione degli autori da presupposti anti-artistici (istanze mutuate da quelle espresse negli anni ‘10 nei tumulti dadaisti), “Un cane Andaluso” irrompeva allo scadere del primo ventennio del secolo a scandire con tragicomica virulenza lo “stallo metamorfico” di un clima culturale che sullo scacchiere internazionale trovava il suo “requiem” più appariscente nel crollo di “Wall Street” e nell’affermarsi in Russia del regime stalinista.

Sua peculiarità in qualità di creazione estetica non consisteva  né nell’essere il primo prodotto cinematografico espressamente ispirato ai dettami del primo manifesto del surrealismo redatto dal vate Andrè Breton, dacché la francese Germaine Dulac si era già misurata nel 1926 con un testo di Antonin Artaud (l’istrione-leader del primo surrealismo) per girare l’onirico quanto astratto “Le Coquille et le Clergyman”, né in una sua sottesa volontà progettuale di farsi “testa di ponte” di un nascituro filone radicato su quelle premesse para-cinematografiche che avevano animato l’ “imagerie” dei due spagnoli.

Semmai dunque si accettasse di gettare la spugna di fronte alle immagini dello stralunato Batcheff che vediamo dapprima scorrazzare in bicicletta con una mantellina ed una scatola a righe appesa la collo, più avanti in una stanza da letto dalle dimensioni di un palco teatrale alle prese con pianoforti a coda guarniti da asini putrefatti, per decretare l’assoluta insostanzialità semantica della materia filmica, priva in altri termini di alcuna connotazione logico-narrativa, e di conseguenza qualificata come semplice risultato di un frenetico lavoro di casuale “decoupage” (“copy and past” nel gergo dei moderni sistemi operativi) si finirebbe con l’incorrere nella ingenua quand’anche, sotto il profilo della mera reazione emotiva, rispettabile disposizione critica che nell’800 romantico ascriveva all’illuminazione del “sacro fuoco” dell’artista la dignità di unica autentica sorgente dell’Opera d’Arte.

Ciò che invece andrebbe diagnosticato in una più capillare ricognizione dei materiali e della tecnica di montaggio, e in modo ancora più meditato e mirato nel successivo “L’Age d’Or” (dove l’autografia di Bunuel trova campo libero nel calcare i tratti anti-clericali e di sarcasmo anarcoide che contraddistingueranno il resto della sua produzione raggiungendo l’apice in “Viridiana”), è piuttosto la ponderata applicazione di un criterio grammaticale  che denuncia la sua diretta filiazione dai giochi e dalle invenzioni della Residencia ancor prima che dalle “bolle papali” di Breton e accoliti (i quali, sotto l’esergo lirico di Apollinaire, altro non facevano che replicare in forma pseudo-scientifica il sistema ludico-polemico di Tzara e Duchamp). Occorre anzi considerare come gli assunti teoretici del movimento surrealista giungano a depositarsi sul sostrato pre-esistente della formazione studentesca della “Generacion” fornendo una sorta di suggello estetico e di autorità espressiva ufficiali al loro “dialetto” artistico.

 

 Luis Bunuel si iscrive alla facoltà di agraria nel 1917 dopo aver terminato gli anni dell’educazione religiosa in un collegio di gesuiti a Saragozza, ma tornerà sui suoi passi realizzando la propria avversione per l’entomologia e laureandosi infine in lettere nel 1924. Salvador Dalì era giunto a Madrid nel 1923 per iscriversi all’Accademia di Belle Arti di S. Fernando (per poi tornare a Figueras nel 1926 senza laurea a seguito della sua espulsione) e aveva da subito legato con i futuri  esponenti dello zoccolo duro della cultura ispanica del novecento, primo tra tutti Federico Garcia Lorca, Rafael Alberti, Moreno Villa, Ramon Gomez de la Serna, Bunuel e il misterioso Pepin Bello.

Gran parte delle giornate vengono spese nei quartieri antichi della città, nei caffè, in convegni notturni che offrono il destro per un fervido interscambio di idee filosofiche, trovate picaresche, e soprattutto nella lettura e composizione di poemi. Spronati dagli sperimentalismi di Guillaume Apollinaire che aveva scardinato le regole morfologiche e sintattiche della poesia tradizionale con l’introduzione dei calligrammi, poesie costruite tipograficamente in funzione della rappresentazione grafica di figure ed oggetti più o meno connessi al soggetto del testo, Bunuel e i suoi amici si dilettavano nella creazione degli “anaglifi”, quattro versetti costituiti da tre sostantivi e il cui ultimo doveva essere sempre “la gallina”, mentre Dalì e Lorca, influenzati dai “putrefactos” ideati da Pepin Bello, disegnavano i “putrefatti”, personalità anacronistiche, obsolete della borghesia, del clero, delle accademie. Sulla falsa riga di queste formule nascono nello stesso periodo i “cadavre exquise” dei surrealisti, figure polimorfe risultanti di diverse invenzioni disegnative tracciate su un foglio man mano piegato in più parti in modo da nascondere a ciascun disegnatore il resto dell’immagine creata fino a quel momento. Una procedura che fa propria la vocazione all’automatismo associativo acritico e istintuale propugnato in riferimento alle tecniche psicoanalitiche descritte da Freud nell’ “Interpretazione dei sogni”, e della quale in qualche modo non è infondato individuare una risonanza sulla definizione dello stile ritmico delle sintassi di montaggio di “Un chien andalou” e l’ “Age d’Or”.

Insignito un mese prima a Parigi del titolo di “regista ufficiale del gruppo surrealista” (benché Breton non avesse mai contemplato il cinema tra i “medium” del movimento), Bunuel si proponeva innanzitutto di esaudire l’ambizione a lungo carezzata di dirigere un film che gli appartenesse sia per impostazione registica che concettuale. L’esperienza di assistente di Jean Epstein terminata l’estate prima sul set della “Casa Usher” aveva infatti acuito l’esigenza del regista di affrancarsi dai “diktat” degli autori già affermati e di intraprendere un proprio percorso di sperimentazione che fosse in grado di rivelarlo agli occhi del mondo con un opera prima che equivalesse ad una sorta di “colpo di mano” mosso nei confronti di tutto ciò che era stato prodotto fino ad allora. Archiviati gli anni delle effervescenti ribalderie studentesche della Residencia, i due amici si ritrovavano nel remoto paesino di pescatori della Costa Brava per escogitare un nuovo attacco anarchico alla “bien-faisance” della cultura contemporanea com’era stato loro “abituè” a Madrid. Ma i contorni di questo biunivoco “work in progress” non sono inizialmente del tutto chiari. Non è dato sapere con esattezza quanto dell’embrione del “Perro Andaluz” fosse già definito nella mente del regista al momento di accogliere l’invito dell’amico pittore a recarsi a Cadaques (e se effettivamente con tale gesto quest’ultimo intendesse stimolare il primo a perseguire tale progetto).

 

 

 Comparando quel che emerge dalla corrispondenza coeva alla lavorazione del film e dalle memorie di Bunuel con quanto scrive Maux Aub relativamente alle conversazioni tenute col regista nel suo libro incompiuto “Bunuel: il romanzo”, si configura il quadro di una fase ideativa fortemente ambigua e conflittuale. Se in quella lettera a Bello Buneuel scriveva “dobbiamo cercare una trama” dichiarando così di voler fornire un telaio narrativo che istituisse dei raccordi logici tra le sequenze, in alcuni scritti più tardi ricorda al contrario come la metodologia di scrittura impiegata nella stesura della sceneggiatura fosse presieduta dal sistematico rifiuto di ogni “derivato di cultura e di educazione. Dovevano essere immagini che ci sorprendessero e che entrambi accettavamo senza discussione, nient’altro (…) In un Chien Andalou il regista prende per la prima volta una posizione sul piano poetico-morale (…) Suo obiettivo è quello di provocare nello spettatore reazioni istintive di attrazione o ripulsa. Nulla nel film simboleggia nulla”.

Dai dialoghi rievocati si evince piuttosto come i due artisti si stessero attenendo ad un’operazione di “selezione” iconografica che rispondesse a dei principi (non ancora consapevolmente codificati come idiomi cinematografici) germinati dal punto di confluenza della mitografia letteraria coltivata dal gruppo di Lorca e Bello con i decaloghi formali dei bretoniani frequentati alla fine degli anni venti. Illuminante al proposito considerare quanto risulti più sincera e acuta l’osservazione avanzata da Bunuel a Max Aub in merito alla reputazione di “sogno impresso su pellicola” guadagnata nel tempo dal film: “La mancanza di illazione logica in un Chien Andalou  è una frottola. Se così fosse, avrei dovuto ridurre il film a semplici flash, buttare in un cappello le diverse gags e incollare le sequenze a caso. Non fu così, e non perché non avrei potuto farlo: non c’era alcuna ragione che l’impedisse. No, è semplicemente un film surrealista in cui le immagini, le sequenze, procedono secondo un ordine logico, la cui espressione dipende però dal non-cosciente che, naturalmente, segue il proprio ordine (…). Usammo i nostri sogni per esprimere qualcosa, non per presentare un guazzabuglio. Un Chien Andalou non ha di assurdo che il titolo”.

Il disconoscere la componente di assoluta irrazionalità di ascendente onirico quale perno sostanziale del film (valutazione che ancora oggi informa il tono di molte recensioni) viene ad acquistare da parte del regista il valore di un atto di “riabilitazione” della dignità artistica del proprio linguaggio cinematografico, meditato strumento di “epifania” di un senso altro che, come Bunuel stesso precisa, per mezzo della “rappresentazione”  si trova involontariamente ad imitare il sogno. Non si tratterebbe quindi di un’ingenua genuflessione all’entropia casuale professata dai surrealisti “sovietizzati” da Breton, dicotomia entro la quale il surrealismo resta confinato nell’angusto “squash” tra l’artista e la vana dissimulazione del proprio spirito critico, bensì del riconoscimento della validità della nuova potenzialità formale, coniata dalla sincresi tra freudianesimo e neo-cultura poetica spagnola, offerta allo scibile personale dell’autore per estrinsecarsi artisticamente. La scelta del titolo funge in tal senso da primo indizio verso l’identificazione delle simbologie e dei possibili tracciati che si snodano “sottopelle” nel corso delle vicende simulanti le dinamiche dell’inconscio. Significativo in primo luogo che alla suddetta lettera di Pepin Bello venga allegata copia di una lettera redatta a due mani da Dalì e Bunuel e inviata nel 1928 al celebre poeta Juan Ramon Jimenez, autore del componimento “Platero Y Yo” (“L’asinello e Io”).

Un “trait d’union” facilmente ravvisabile nel sapore “grandguignolesco” della scena dell’occhio tagliato che potrebbe essere inteso, con il suo compiacimento per l’orrido e i suoi rimandi ai complessi di castrazione, come la cesura radicale compiuta dalla nuova intellighenzia nei riguardi dei poeti marcescenti e della loro cultura “putrefatta”dileggiati da Dalì e Bunuel. Nel saggio “Bunuel: dalla poesia al cinema” Francesco Patrizi vede la conferma della peculiare “etimologia madrilena” creata da Pepin Bello nella reazione indignata dei poeti andalusi, “in primis” Garcia Lorca e Rafael Alberti (memori del gioco dei “putrefactos”), poeti ispirati dalla poetica di Jimenez, i quali si dichiararono diffamati dal titolo e ancor più dalla presenza degli asini decomposti trainati sui pianoforti a coda, quasi una condanna “in effige” del detestato “Platero y Yo”. “Un Cane Andaluso”, con significato dispregiativo analogo a quello recepito da Lorca e Alberti, era d’altra parte anche il titolo di una raccolta di poesie scritte da Bunuel, dato questo che rimarca con ulteriore evidenza la sorgente letteraria dell’architettura visiva del film. Alla luce di ciò anche la definizione di unico elemento di assurdità che il regista aveva riferito al titolo, unitamente alle definizioni di completa assenza di significato del “Perro Andaluz”, vengono a perdere la loro forza assertiva per disporsi ad una rilettura del film capace di coglierne le “nuances” dietro le quali la doppiezza e l’ermafroditismo creativo si fanno sintomatici di più articolate dimensione gnoseologiche.

 

 

“Su alcune cose abbiamo lavorato fianco a fianco. In effetti Dalì e io eravamo molto uniti in quel periodo (…) Il contributo di Salvador al film riguarda solo la scena dei preti trascinati con le funi, ma fu una decisione comune escludere ogni senso narrativo, ogni associazione logica”.

Affermazione da trattare con la dovuta cautela in considerazione del fatto che molte scene del film contengono mitologemi visivi che i conoscitori dell’arte daliniana non esiterebbero ad associare all’indole pittorica del catalano ancor prima che alla cifra registica di Bunuel. Difatti in questo loro “cadavere squisito” disegnato su celluloide, le attitudini “necrofiliche” e paranoico-deliranti che saranno prerogativa poetica della sua prima produzione surrealista, ricorrono con una insistenza a ben vedere più sistematica che fortuita, lasciando attecchire il sospetto che entrambi abbiamo attinto ad un patrimonio visuale condiviso che il pittore ebbe l’abilità di ri-codificare su tela attraverso la lente deformante della propria monomania fiammingo-iperrealista. Sarà sufficiente citare la riproduzione del quadro “La Merlettaia” sulla pagina del libro osservato dall’attrice Simone Breil nelle prime scene della camera da letto, palese traduzione cinematografica della “Dentelliere” di Vermeer più volte adottata come specimen da Dalì nelle tele cubo-naturaliste degli anni venti (vedasi “Noia Cusint” del 1926) per essere poi riproposta più volte nel periodo  dell’arcangelismo scientifico: la mano divorata dal nugolo di formiche, icona di lampante e sadica carica auto-erotica che punteggia le tele proto-surrealiste dipinte nel 1928; il teschio pigmentato sulle ali della farfalla che sostituisce la bocca di Batcheff;  il motivo della mantellina bianca appuntata sulle spalle  che compare nel personaggio seduto de ’”Apparizione del volto di Lenin su un pianoforte a coda” del 1929; e sopra tutti “L’Angelus” di Millet reinscenato dai due personaggi insabbiati fino al collo in riva al mare, motivo oleografico-avveniristico sul quale il film si chiude con una dissolvenza in nero scivolando in un funereo e spiazzante anti-climax. 

 

Mentre Dalì avrebbe proseguito il suo personale scandaglio dei deliri morfologici e delle compressioni inquisitoriali delle forze atmosferiche, fino a ritrovare nelle spirali logaritimiche dei cavolfiori e nella metafisica rinocerontica il segreto latente della Merlettaia di Vermeer, Bunuel si sarebbe dedicato all’affinamento della sua maestria di narratore per immagini emigrando in Messico per girare i suoi capolavori come “Nazarin” e “Los Olvidados” diretta filiazione dell’atroce documentario pre-neo-realista di “Las Hurdes” del 1933, all’ombra ineludibile di quella coppia megalitica dell’Angelus che nella divisione avrebbe accomunato fino alla morte i due ex-amici della Residencia.

Ma mentre le vite dei due si volatilizzavano nel dorato brulicame delle retrospettive e delle celebrazioni, in uno studio di ripresa ricavato nelle scuderie di Doheny Road  nei pressi di Los Angeles, qualcun altro filmava la sconcertante vicenda di uno stralunato individuo la cui testa mutilata si schiantava sulla strada, per essere recuperata da un bambino e venduta per fungere da materia prima di una serie di gomme da cancellare. Dalla mano monca di “Un Chien Andalou”, alla testa rotolante di Jack Nance di “Eraserhead” non si stende un lasso temporale di cinquantasette anni, bensì quello di una manciata di fotogrammi che separa l’ultimo sguardo dell’occhio dall’attimo lunare e liberatorio del suo sezionamento.

D’altro canto stiamo ancora parlando di film che, come osservò una rivista inglese degli anni settanta all’esordio di David Lynch, non sono da vedere ma “da sperimentare”.

 

 

 

Wednesday, November 28, 2018

Waiting for A.I.nfinity - recensione del nuovo album di Jarre


Con il dipinto “Disintegrazione della persistenza della memoria” del 1954, Salvador Dalì tornava dopo oltre vent’anni al motivo iconografico che l’aveva consacrato pontefice del surrealismo agli occhi del pubblico internazionale. Stavolta nella piccola tela gli orologi molli fluttuavano al di sopra e al di sotto di una schiera di mattoni particellari che si assottigliavano in corni rinocerontici puntati contro i resti gravitazionali della baia di Port Lligat, nella prefigurazione di un futuro devastato dal fallout atomico che, all’epoca della corsa agli armamenti nucleari, non era frutto soltanto del delirio paranoico di un pittore catalano. Lungo itinerari più o meno premonitori anche Jean-Michel Jarre, al duplice traguardo dei settant’anni di vita e dei cinquant’anni di attività musicale, torna a elaborare con zelo psicoanalitico il persistere della memoria di quella che rimane l’opera artisticamente più compiuta della sua discografia, quella suite in otto parti di “Equinoxe” che alla sua uscita nel dicembre 1978, sull’onda lunga del successo di “Oxygene” contava già un milione e mezzo di prenotazioni.

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Monday, November 26, 2018

MALORDA al SELVA NERA FANTASTIC FILM FESTIVAL di PADOVA

MALORDA al SELVA NERA FILM FESTIVAL di PADOVA

 

Alessandro Fantini, artista versatile che spazia dalla pittura alla regia e che nella prima edizione del festival Selva Nera aveva presentato il curioso lungometraggio fantascientifico Edonism, di produzione italiana ma girato interamente in Giappone, torna con un corto (tratto dalla webserie composta finora da sette episodi) sempre caratterizzato da intelligenza e senso del grottesco, che piacerà agli amanti di quel ramo del fantastico più bizzarro. Il dottor Malorda risolve i vostri problemi, ma attenti a cosa chiedete...


Stefano bovi e Massimo Bezzati

fondatori e direttori del SELVA NERA FILM FESTIVAL

Friday, October 12, 2018

MALORDA: Buonuscita

MALORDA
Buonuscita



  Incalzato da un cliente insofferente alle attese, il dottore farà in modo di soddisfare in maniera "inattesa" la sua richiesta di ottenere i fondi necessari all'avvio di un'attività commerciale particolarmente fumosa.

 Scritto, diretto, montato, interpretato e prodotto da Alessandro Fantini
Musiche di Alessandro Fantini

Sunday, September 30, 2018

AFANzine - Andrea Pazienza


   


AFANzine - Andrea Pazienza 

 Nel segno della moltitudine 

 Nel trentennale della morte, AFan Alessandro Fantini tratteggia un ritratto di Andrea Pazienza, artista senza compromessi che in poco più di trent'anni visse centiniaia di vite, marchiando un'epoca e una generazione con il segno di un'invincibile moltitudine. 

  Tra video-magazine e documentario, programma divulgativo e videoarte, in questa serie pensata e realizzata per il web, l'artista multimedianico AFAN Alessandro Fantini passa in rassegna nel suo atelier le correnti e gli artisti che hanno contribuito negli anni alla sua formazione estetica, influendo sulla maturazione del suo personale approccio multiforme alla creatività.

Tuesday, September 25, 2018

MALORDA - They come in legions


    

MALORDA 

They come in legions

 Directed, edited and produced by AFAN Alessandro Fantini.

Saturday, September 22, 2018

Nuovi e stagionati talenti


Circa 10 anni fa, in un'audizione al fulmicotone tenuta davanti alla commissione dell'operazione "NUOVI TALENTI RAI" negli studi Nomentano di Roma, presentavo il format di quella che sarebbe diventata la video-rubrica "AFANzine- L'Arte raccontata da AFAN" tuttora in "autoproduzione" sul mio canale YouTube. Un'esperienza che resterà per sempre legata al ricordo di Fabrizio Frizzi, l'unico che dopo il provino venne ad incoraggiarmi e a farmi gli auguri
A tutt'oggi, anche grazie alla mia recente ricomparsa in un programma serale di RAI TRE, ricevo messaggi di spettatori che vorrebbero vedermi affrontare i temi più disparati a cadenza periodica (e non solo sul web), ignari del fatto che ogni puntata richiede un dispendio di energie (non solo creative) che necessiterebbero di un supporto produtttivo ben più corposo per essere rapidamente ripristinate. Non di solo video vive l'uomo.
https://youtu.be/cwCgWJo7gLw

Saturday, September 15, 2018

Thursday, September 13, 2018

SULLA SINDROME DEL GENIO RELATIVO


SULLA SINDROME DEL GENIO RELATIVO (e su come guarirne)


Nel corso degli anni la mia attività creativa mi ha permesso d’incontrare personaggi e di vivere situazioni che non avrebbero sfigurato in una stagione di “The Twilight Zone” o, per essere più al passo coi tempi, di “Black Mirror” e “Stranger Things”. Dal viaggio imprevisto compiuto tra filoni di pane sul furgoncino diretto al castello di Pubol in Catalogna, alla visione del bambino in calzoncini corti e zaino in spalla che a Tokyo attraversava la strada sotto la neve del primo mattino. Dal critico d’arte che tra sacchi di gesso nel cortile di Palazzo Barberini mi parlava con l’accento greve di un Mario Brega consigliandomi di rinunciare all’arte per votarmi alle gioie della carne, al tipo che a Firenze ripeteva come la musica elettronica fosse tutta una fuffa commerciale, alla ragazza che sul volo Londra-Roma voleva convincermi che dopo i trent’anni il celibato fosse dannoso per la salute di un artista (ribadendolo nei giorni successivi con sms a raffica), al “promotore culturale” che  mi chiedeva sbraitando di non danneggiargli il basso ventre con la richiesta di collaudare lo schermo sul quale avrei dovuto proiettare i miei corti.

Ma ad affascinarmi per le sue implicazioni etologiche è sempre stato il comportamento di quelle persone che, venute a contatto in periodi diversi e per ragioni diverse con la mia arte, sembravano subire una sorta d’invasamento mistico. Alcuni di loro erano capaci di telefonarmi ogni giorno intercalando le frasi con esclamazioni come “Sei il numero uno! Sei un genio! Sei un fenomeno!”, si offrivano di diffondere la mia arte ai quattro angoli del pianeta (senza spiegare in che modo) o vaticinavano imminenti trionfi e successi.  Di norma a questa fase di “vasodilatazione” (che poteva protrarsi anche per mesi) faceva seguito una di circospetta “circonvenzione”: il soggetto cominciava a calibrare le sue azioni e le sue parole in funzione di un obiettivo che non riguardava più solo il sottoscritto. Gradualmente la genialità che mi veniva da loro attribuita andava mitigandosi, defluendo nelle loro nuove, nascenti aspirazioni artistiche o scivolando sotto il tappeto di un disamoramento più o meno ostentato. E questo mentre continuavo con gli stessi ritmi e la stessa dedizione a produrre opere su opere. Nella sua fase finale il soggetto tornava nell’oblio totale dal quale era emerso come una specie di araldo andato in pensione. Puntualmente alcuni (non tutti) di questi soggetti vanno incontro a ricadute quando il mio nome fa capolino su una pagina di giornale, su uno schermo televisivo o su un sito. Sono presi dalla smania di tessere panegirici e biografie delle quali a volte vorrebbero i diritti d’autore, convinti che in tutto quel tempo in cui sono rimasti in silenzio la loro influenza abbia continuato ad agire per vie telepatiche.

La psicopatologia del “genio relativo” non è tuttavia una sindrome nuova o particolarmente perniciosa per chi la subisce ma nel tempo, soprattutto con l’avvento del web, ha assunto le forme virali più insospettabili e fantasiose.

Ma per chi ne è affetto senza saperlo o sta cercando il modo di guarire, è possibile applicare questa semplice terapia: guardarsi ogni giorno allo specchio e studiare le forme più o meno curvilinee assunte dal proprio volto.

 P.S. A scanso di equivoci, mi preme precisare che non ho nulla contro chi esprime apprezzamenti "iperbolici" a voce o per iscritto. Nel testo mi riferisco esclusivamente ad una tipologia con specifici tratti caratteriali osservati nel lungo termine.